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L’esperienza di uno psicologo durante la prima ondata di Covid-19 a Parigi

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di GIULIA PAOLETTI

L’epidemia di Covid-19 ha cambiato radicalmente il nostro comportamento, le nostre abitudini e soprattutto il nostro rapporto, di clinici e di esseri umani, con l’ineluttabile.

Se prima l’inesorabilità della malattia e delle sofferenze legate alla fine della vita erano territorio noto ad una specifica parte della società che, tramite l’azione di diverse figure professionali, la affrontava coraggiosamente accudendo, ascoltando e cercando per quanto possibile di limitare il danno fatto dall’irreparabile, durante la pandemia questa straripante sofferenza ha inondato come una marea quasi tutti i professionisti della salute mentale, ponendoli di fronte ad un “reale” ben diverso da quello che molti di noi sono soliti conoscere.

La marea dunque: marea capace di rompere gli argini del contesto puramente ospedaliero, di confondere il confine tra sofferenza psicologica e psicopatologia, di inghiottire il nostro senso di sicurezza e talvolta di mettere a dura prova la nostra posizione di terapeuti. Riguardo alla posizione del terapeuta, o forse sarebbe più corretto parlare di “postura” dello psicologo nella relazione terapeutica, questa viene generalmente vista come empatica, rassicurante e direttiva.

Nei mesi vissuti durante la prima ondata questa componente direttiva è, almeno per quel che mi riguarda, venuta a mancare. Sebbene l’empatia, il sostegno, l’ascolto attivo e gli obiettivi (nel caso di un inquadramento cognitivo comportamentale) siano stati salvaguardati, qualcosa nella nostra postura di terapeuti si è sottilmente ma inesorabilmente perso. Il perché è da imputare alla condizione totalmente nuova e spaventosa che ci trovavamo (e ci troviamo) a vivere: noi siamo, psicologo e paziente, davanti all’inconnu, all’ignoto e allo stesso nemico invisibile.

Siamo davanti al medesimo isolamento forzato e alle medesime informazioni, le quali talvolta portano ad un effetto nefasto e tossico soprattutto se sparate in continuazione dai media ad ogni ora del giorno. Siamo davanti alla stessa difficoltà nell’adattarsi a nuovi ritmi, nuovi schemi mentali, nuove ricerche di stabilità nella gestione del quotidiano. Questo se da un lato rompe il normale equilibrio/squilibrio della relazione, dall’altro ci avvicina in quanto esseri umani, inseriti in una realtà percepita come minacciosa, imprevedibile e totalmente in divenire. E qui che, almeno nella mia personale esperienza, ci si ritrova e ci si rispecchia nell’altro, e da questa nuova prospettiva si riesce forse ad accettare più consapevolmente l’ignoto e a riconoscersi come in una diversa ma parallela versione di se (concedetemi il paragone un po’ kitsch con la scena dello specchio di Atreyu nel film degli anni ‘80 “La storia infinita”).

Mi è comunque d’obbligo notare, anche solo per sottolineare ove possibile un aspetto positivo, che alcuni dei pazienti che ho seguito durante l’isolamento domestico ritrovavano una maggiore serenità e più tempo (molto più tempo) per l’auto-osservazione e la riflessione sul funzionamento di alcune trappole mentali. Sembrava quasi che tutto questo tempo a disposizione venisse percepito come un “regalo” per taluni, forse normalmente inseriti in ritmi di vita poco umani.

Ci era e ci è dunque impossibile opporci all’ineluttabilità del virus, che è presente seppur invisibile all’esterno, e ci è altresì’ impossibile opporci all’idea stessa di ineluttabile nella psiche, nella prospettiva del paziente così come nella prospettiva del familiare di un paziente ricoverato.

Sul fronte ospedaliero infatti, mi sono trovata ad occuparmi specificamente dell’assistenza alle famiglie dei pazienti ricoverati in rianimazione e terapia intensiva. Spesso erano famiglie lasciate senza troppe informazioni sui loro cari, non certo per negligenza, ma perché il personale medico era sopraffatto e impossibilitato a comunicare correttamente a causa della situazione drammatica del reparto. In questo caso il supporto veniva offerto telefonicamente o tramite collegamenti video e specificando chiaramente che si trattava di una POSSIBILITA’ di presa in carico che il familiare aveva a disposizione. Ricordo bene le mie prime telefonate alle famiglie e la mia incredulità nel sentire gratitudine dall’altra parte del filo. La prima cosa che mi immaginavo a inizio lavoro era che sarei andata incontro ad un cortese diniego nella migliore delle ipotesi, mentre nella peggiore sarei stata liquidata come un’ulteriore fonte di ansia, perciò mi approcciavo molto cautamente senza credere troppo che il mio aiuto (per di più solamente telefonico) potesse essere utile.

Gratitudine dunque la prima, sorprendente, reazione, seguita dalla condivisione della propria storia e del proprio vissuto.

La seconda era immancabilmente la richiesta di informazioni: “ Si sa come sta? Si sa quando potremo andare a trovarlo? Lei sa cosa hanno detto stamattina?”. Purtroppo, noi come loro eravamo totalmente all’oscuro, nessuna possibilità di ottenere notizie a breve termine.

Molti volevano essere richiamati nello spazio di una settimana ed essere ascoltati a lungo nei mesi a venire, ma pochi lo facevano richiedendo espressamente un collegamento video, quasi fosse preferibile restare su un piano puramente vocale e che fosse il più intimo ma anche il “meno reale” possibile. Ricordo il papà di una ragazza ventiduenne ricoverata che mi confessò: “No signora, preferisco che lei sia qui ma solo nelle nostre telefonate, quando tutto sarà finito non voglio che rimanga nulla di questo periodo”. Forse il fatto di vederci avrebbe reso più “reale” l’intera vicenda, che sperava fosse il più possibile ricacciata indietro come in un sogno lontano.

Altra osservazione è quella per cui, lasciando loro la scelta se richiamare o essere richiamati, si poteva percepire come questa scelta fosse un modo, seppur blando, di fornirgli un margine di manovra, una possibilità di controllo, in una situazione che di controllabile aveva ben poco.

Naturalmente le ripercussioni sulla nostra personale emotività non hanno tardato a manifestarsi.

Del resto sarebbe stato impensabile non averne, quando al mattino arrivava la lista dei familiari dei pazienti ricoverati da chiamare e il giorno seguente si rendeva necessario ricontattarli, con la differenza che metà delle persone prima in rianimazione era adesso deceduta. Questo implicava che nello spazio di 24 ore si passava da un contesto di ascolto e supporto per parente malato ad un accompagnamento per lutto.

morale di questa storia non c’è, ancora non l’ho trovata. Preferisco che resti soltanto una testimonianza come tante altre, con la speranza banale ed inevitabile che non si ripresenti mai più l’occasione di raccontarne un’altra simile.

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