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Lo scompiglio creativo dell’essere terapeuta

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di MARIA ELENA FANTONI

Come scrivere qualcosa sulla mia esperienza clinica durante la crisi sanitaria? Ci sarebbero tante tematiche da approfondire. Per esempio, ciò che comporta lavorare con il video, senza percepire il corpo che è fisicamente assente ma con una finestra nell’intimità delle persone che chiamano da casa propria. O lavorare con la mascherina, per me come per gli operatori sociali con cui lavoro e che sono a contatto con bambini e famiglie in situazioni precarie e a volte drammatiche.

Questi nuovi gesti professionali (portare la mascherina, fare sedute a distanza) fanno parte dei nuovi modi di fare introdotti brutalmente dalla crisi che porta scompiglio in ogni ambito relazionale.

Vedo poi paralleli preoccupanti tra la crisi del covid e la crisi dell’Aids, in particolare sul lascito di paura che ha improntato le relazioni amorose e sessuali degli ultimi decenni.

Questi sconvolgimenti li vedo per esempio nel vissuto di destabilizzazione delle educatrici di un centro per madri in difficoltà che sto accompagnando in un dispositivo di “analyse des pratiques professionnelles” ; un trasloco vissuto dolorosamente a inizio anno ha portato necessari cambiamenti nella loro attività; constato però che pur scombussolando l’identità professionale, questi scossoni permettono a questa équipe di indagare il modo di lavorare e di pensare le cose più in profondità e con maggiore autenticità.

Forse la cosa che mi porta a cercare con urgenza altri modi di fare, anzi di essere terapeuta, è proprio lo sconvolgimento relazionale che è avvenuto negli ultimi mesi a tanti livelli (privato, professionale, sociale) tanto per me quanto per le persone che incontro ed accompagno.

Condividere un’esperienza inedita per la maggior parte della popolazione mondiale ha probabilmente creato un sentimento di appartenenza nuovo: il terapeuta e il paziente sono insieme a tutti gli altri esseri umani nella stessa barca. Anche prima del Covid naturalmente eravamo tutti nella stessa barca, ma adesso non ci si può più illudere del contrario e questo per me fa sì che il terapeuta possa scendere dal piedistallo di colui che detiene il sapere per connettersi al paziente in un altro modo, forse più autentico e profondo.

Per esempio, mi sono ritrovata a commuovermi con una giovane donna che in uno slancio di vita e di creatività mi dice di voler festeggiare la fine del cancro di cui è morta la madre perché adesso il cancro non è più questa presenza opprimente nella sua vita quotidiana.

Sono stata sovrastata dalle mie emozioni con una paziente che si rimemorava del trauma vissuto con l’attentato a Charlie Hebdo, tanto la risonanza è stata dolorosa. Sono stati insomma episodi di “self disclosure” del tutto spontanei e inattesi che ho vissuto con l’ansia di non debordare sul vissuto emotivo dei pazienti e sui quali mi interrogo perché mi sembra che abbiano un significato dell’ordine del necessario.

Sento di essere all’inizio di un nuovo percorso umano e professionale. La voglia di autenticità che già avevo diventa urgenza di sapere “usare” tutta me stessa per mettermi al servizio della terapia ed “esserci” profondamente.

Saper utilizzare i propri affetti, il proprio controtransfert o le proprie risonanze emotive (secondo il setting di riferimento, analitico o sistemico); mantenere una curiosità, una capacità a lasciarsi attraversare, scombussolare dagli eventi per elaborarli mi sembrano oggi delle evidenze per affinare la capacità a entrare in sintonia profonda con i pazienti.

Insomma questa crisi ha per me portato qualcosa di molto fertile: il desiderio di essere terapeuta che esiste da tanto tempo si è affinato, ho voglia di connettermi più autenticamente con il vissuto delle persone che accompagno, di sperimentare per aiutarle a ritrovare le loro risorse. Mi interrogo molto sul setting, sui miei punti di riferimento. Sono animata dal dubbio e ho voglia di vedere altro, fare in un altro modo, “esserci” in modo più pieno e consapevole.

 

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