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Urgenza sanitaria e urgenza soggettiva durante la crisi del Covid-19

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di SERENA GUTTADAURO-LANDRISCINI

Durante il primo lock-down, primo di una serie che a Parigi ne conta almeno due, l’ospedale psichiatrico dove lavoro ha subito un arresto netto. La chiusura di tutti i luoghi accoglienti un pubblico, in senso vasto (scuole, uffici, ristoranti, cinema, teatri, ecc.) ha comportato anche la chiusura dei nostri servizi di cure psichiatriche che accoglie normalmente un pubblico tra i 13 e i 25 anni, di giorno come di notte, ma non in stato di crisi. Il servizio si dedica infatti ad accogliere giovani soggetti di quasi tutta la regione proponendo un percorso abbastanza lungo in generale, che permette loro di trovare un appiglio per poter creare nuovi equilibri psichici malgrado delle patologie piuttosto gravi, tutte rilevanti della psicosi.

Abbiamo tutti subito allo stesso tempo ma in modo diverso, pazienti come operatori, quella che si può definire un’ « irruzione del reale » dato l’aspetto inedito e radicale di questa crisi. Difficile trovare un senso o una giustificazione ad una situazione così nuova, pur sapendo la causa scientifica della pandemia. Causa che è stata tra l’altro scoperta poco a poco, lasciando ancora oggi, alcuni aspetti nell’ombra. Per molti soggetti nevrotici, un modo per non cadere totalmente nell’angoscia che una tale irruzione è capace di provocare, un ricorso è stato dato dal fatto che la situazione era condivisa da tutti, lo stato di pandemia non poteva escludere proprio nessuno. Questo fare gruppo, anche se nella sventura, è stato utile per diluire l’effetto angosciante che un tale sconvolgimento della propria vita, intima, professionale e sociale, ha rappresentato. L’altro rimedio, ovviamente blando, ma tipico nella nevrosi quando si affronta un reale insopportabile, è stato ricorrere all’imaginario per paragonare per esempio il mondo attuale, chiuso, statico, silenzioso, a scene di fantascienza tratte da libri o film come per cercare di fabbricare un « déjà vu », un qualcosa di conosciuto in mezzo al vuoto angosciante che si erigeva fuori. Per alcuni è stato come vivere in una novella distopica, in cui malgrado lo stress e il sentimento deprimente, era possibile restare artefici di quella storia, permettendo a volte un ricentramento su se stessi per trovare nuovi punti fermi.

Ho sicuramente fatto parte, durante questo primo periodo di restringimento delle nostre libertà, di quelle persone « fortunate » che hanno avuto la possibilità, nonché l’obbligo, di continuare a lavorare. Infatti il servizio di psichiatria è stato chiuso solo per i nostri pazienti abituali, perché non considerati urgenti, ma è restato aperto per accogliere altri pazienti in stato di crisi. Anche di più del solito, perché una volta internati, i pazienti restavano lì 24ore/24 e 7giorni/7, fine alla fine del lock-down (mentre il nostro ospedale è normalmente chiuso il fine settimana). Il reparto è diventato durante 3 mesi un UHTP (unitè d’hospitalisation temps plein), implicando una riorganizzazione dei turni di tutto il personale, aumentato anche quello dai colleghi volontari venuti in rinforzo. Un aspetto di questa situazione è stato la straordinaria capacità di tutti gli operatori sanitari a rispondere presente, nonostante la difficoltà che implica il lavoro con pazienti particolarmente difficili, spesso violenti, e gravemente carenti. Infatti per questi nuovi pazienti l’ospedale ha rappresentato un asilo, nel senso di un’accoglienza attenta e costante, per proteggerli dal mondo esteriore o intimo delle loro case, dove il loro agire diventava pericoloso sia per loro che per gli altri.

Sono stati tre mesi molto intensi, nei quali tutto il personale sanitario (medici, psicologi, infermieri e educatori) si è adoperato per contrastare situazioni difficili, e durante i quali l’irrompere del reale troppo silenzioso a cui avevamo a che fare all’esterno, era raddoppiato dal reale della psicosi agitata che accoglievamo all’interno. Per lavorare in questo tipo di urgenza, è stato necessario fissare delle riunioni giornaliere per poterci confrontare tutti insieme sullo stato dei pazienti, sulle ultime crisi, sulle risposte che avevamo potuto dare, le attività proposte capaci di toccare un soggetto preciso o le invenzioni che avevano funzionato per calmare uno stato d’agitazione.

Gli altri pazienti rimasti a casa sono stati seguiti regolarmente via telefonate, messaggi e video chiamate, là dove la presenza visiva era importante per mantenere un contatto di una voce associata ad un’immagine. Anche quando non c’era risposta da parte di alcuni, i nostri segnali de presenza, più discreti, sono stati mantenuti per trasmettere una certa continuità.

L’urgenza del covid non è dunque stata vissuta in modo diretto dal nostro ospedale, i nostri « malati » non avevano bisogno di particolari cure mediche. Non si è trattato di tenere in vita i malati o accompagnare le famiglie nel lutto. Il tormento e l’urgenza che la psicosi presenta in certi pazienti, e secondo periodi specialmente angoscianti, è stata un’ennesima messa alla prova per la nostra clinica per accogliere quelle persone per cui solitudine non rima con tranquillità, ma coincide piuttosto con una letale vacuità.

Serena Guttadauro-Landriscini

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