di ELISABETTA MONINI
Di struttura il logos viene a pourfendre il soggetto. Uso “pourfendre” perché la sua traduzione letterale è “uccidere “, il che la dice lunga e ci mette subito al cuore del nostro proposito.
Da questa divisione lacerante sorge il necessario appello all’Altro. A partire da questo momento inaugurale, la parola sarà quel trait-d’union (anche qui non traduco ma conservo) quel entre-deux, quel ponte tra il soggetto e l’Altro.
Lo statuto del nascente viene d’emblée mutato indelebilmente: non più mero essere senziente ma parlêtre, essere di parola, nel pieno della sua funzione principe : quella di appello all’Altro.
Quando questa scommessa iniziale non si produce, il surgissement – l’avvento – del soggetto dell’inconscio è intralciato, limitato, sprofondato nell’abisso della disarticolazione della parola. Tenebre della parola che non riesce ad incarnarsi nel discorso.
Forse il ricorso alla logica dei 4 discorsi può esserci d’aiuto nello sviscerare l’ipotesi che il bilinguismo non sia né un vantaggio assoluto né, tuttavia, una perdita radicale.
Non una lingua senza l’altra dunque – pas l’une sans l’autre – ma piuttosto l’accesso alla terzietà: il confluire delle due pietre miliari genitoriali nel loro prodotto Unico: il loro figlio.
Bilingui tutti dalla nascita dunque? Sicuramente, volenti o nolenti, ricettacolo di due posizioni strutturali diverse, litorali tra di loro. Figli del “tutti tranne uno” e della “non-tutta”.
Potremmo dire, gettando la spugna: dialogo fra sordi. Oppure accettare che si apra uno spazio di ricchezza e varietà di espressione consentita, appunto, dalla nostra bi-modalità inaugurale.
Nel bilinguismo ciò che è trasmesso dai due genitori e, per estensione finale, da due lingue, si singolarizza sotto forma di una lingua Nuova, un dolce stil novo, una lingua terza.
Ecco: bilinguismo potrebbe essere sinonimo di Finnegans Wake come punto all’infinito della torsione del materiale-lingua. Della lalangue. Creatività di una lingua mai abbastanza completa e sempre rigogliosa di trouvailles sbocciate dalla condensazione, dallo spostamento, dal pulsare dell’inconscio.
Poniamo l’ipotesi che il piccolo a – nell’argomento che ci interessa – sia il resto di quella lingua materna simbiotica e “imparlabile” alla quale abbiamo dovuto rinunciare grazie alla scure del Nome del padre e del distanziamento salutare che ciò ha inflitto alla diade affinché parlare all’altro fosse possibile attraverso una lingua consensuale, ordinata, regolata.
Da questa cesura imposta dal significante nella carne della lingua materna scaturisce un resto. Ecco sorgere la lingua trasmettibile, comune e simultaneamente intrisa del ricordo della Cosa tutta.
Se l’ipotesi della lingua come resto di una lingua arcaica e carica di godimento, fosse perseguibile, potremmo allora seguire il percorso circolatorio di questo resto nei Quattro Discorsi.
Potremmo far scorrere le lettere algebriche accorgendoci che il piccolo a – quel che resta della lingua-madre – circola da un discorso all’altro assumendo un valore diverso secondo la posizione del momento: a volte mancanza assoluta nel discorso analitico e tuttavia motore dinamizzante che ci spinge, ancora e ancora, verso il nostro significante primo; a volte piccolo guadagno di godimento espresso dal complimento, dalla buona parola del padrone che ci ha messo al lavoro…
Il bilinguismo allora potrebbe rappresentare una delle molteplici forme dell’oggetto a e delle sue mille interazioni con il soggetto diviso: questo S barrato che si confronta con un piccolo a cangiante, polisemico e variabile nei suoi riferimenti linguistici tanto da racchiudere nella pratica di due lingue sia il sapore di una lingua primigenia alla quale rinunciare ed una seconda lingua venuta a stabilire un limite ed un’apertura al mondo altro da quello materno.