Il dentro e il fuori della pandemia

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di CINZIA CROSALI

L’alternanza delle varie limitazioni di libertà in tempo di pandemia mi ha ricordato una formula che si esclamava da bambini quando si giocava a nascondino. Dopo aver fatto la “conta”, il bambino che stava in “tana”, contro un muro o contro un albero, si girava, apriva gli occhi e gridava: “ chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro!”. Era quello il segnale che annunciava che era scaduto il tempo di nascondersi, “chi stava sotto” iniziava la ricerca dei compagni nascosti, e questi ultimi a quel punto potevano correre a “fare tana” senza farsi prendere!

Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro! Parole di un gioco che oggi risuonano nel reale delle nostre vite. Potrebbero essere lo slogan dei diversi lockdown, confinamenti e coprifuoco che si alternano da mesi nelle nostre città, minacciando progetti di viaggi, di spostamenti, di vita. Il concetto binario di “dentro – fuori” evoca immediatamente i muri e le frontiere. I muri della casa, luogo dove lo “stare” non è più frutto di una libera scelta, ma dipende dalle regole imposte dalla crisi sanitaria; le frontiere fra stati, fra regioni e fra comuni, frontiere che erano inesistenti o solo simboliche fino ad un anno fa e che sono ora diventate perigliose e a volte invalicabili.

La frontiera tra l’Italia e la Francia per esempio, negli ultimi due decenni si era affievolita, era quasi evaporata e i passaggi da un paese all’altro erano per noi europei enormemente agevolati. Da anni eravamo abituati ad attraversare il confine in macchina, per valichi o trafori, senza quasi mai incontrare controlli di polizia o di dogana. Le frontiere al tempo del covid-19 si sono rialzate. Non basta il passaporto per attraversarle, ora sarà richiesto il test negativo e la dichiarazione di vaccinazione contro il covid. Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro. La frontiera non si innalza solo tra i paesi, ma diventa spessa e sospetta anche tra le persone. La frontiera più intima è quella del proprio corpo, della pelle del corpo, che diventa limite invalicabile tra i simili. Il corpo, le mani, la pelle nostra e dell’altro: luoghi da non toccare, da evitare, luoghi di contagio e quindi di pericolo. Dove finisce un corpo? Dove comincia quello dell’altro? Dove si situa il respiro, che entra ed esce dal corpo, che non ha una frontiera definita?

Abbiamo imbavagliato il respiro dietro le maschere, dietro le pareti di plexiglas, nuove frontiere trasparenti, ma non potremo impedirne il ritmo incessante, il suo passare dentro e fuori dal nostro corpo. E’ il primo respiro quello che ci ha aperto i polmoni nascendo, è in quel respiro gridato che siamo passati dal dentro al fuori del corpo materno, da un dentro liquido a un fuori fatto di ossigeno, di aria, di spazio. Questo virus che attacca i polmoni e soffoca la respirazione, ci colpisce in una parte essenziale, sbocciata nel momento stesso della nascita.

Oggi, in questa particolare pandemia, il respiro può trasportare malattia e morte. La minaccia passa attraverso ciò che di noi è più imprendibile, irrinunciabile e prezioso. Nel disagio psicologico il respiro è spesso implicato e compromesso; conosciamo le espressioni come : mi manca il respiro, ho il respiro corto, affannato, bloccato, pesante, trattenuto, accelerato, ansante, profondo …. Oggi il respiro, potenziale veicolo del virus, diventa anche sospetto, minaccioso. Quello del proprio simile è messo a distanza, nessuno lo vuole sentire “sul collo”.

Ognuno vive questa crisi pandemica con le proprie risorse psichiche e la propria interpretazione del mondo; le reazioni diverse e a volte contrastanti, ci mostrano come il rapporto con il dentro e con il fuori sia qualcosa di intimo e particolare a ciascuno. L’idea che il “dentro” sia la zona protetta, sicura, conosciuta e il “fuori” la zona pericolosa, sconosciuta e minacciosa è spesso contraddetta dall’esperienza quotidiana e dalla pratica clinica attuale. L’Altro, che sembra essere il nostro fuori, è ciò che ci precede quando nasciamo e con cui abbiamo subito a che fare se vogliamo accedere alla dimensione di soggetti. L’impatto dell’altro sul soggetto, altro del linguaggio, altro materno, altro sociale, è prezioso e traumatico allo stesso tempo, il suo evitamento produce serie patologie e forme autistiche di vita. Il confine non è mai impermeabile, e la vita umana è fatta di zone dove il dentro e il fuori si mescolano e interagiscono, dove quello che è fuori diventa dentro e viceversa. Jacques Lacan ha costruito una logica interessante utilizzando le figure topologiche non orientabili, come il nastro di Moëbius o la bottiglia di Klein, dove non c’è distinzione tra il dentro e il fuori. Possiamo anche pensare ai disegni di Escher e ai suoi spazi vertiginosi, dove, a livello percettivo, l’esterno e l’interno si fondono senza soluzione di continuità.

“Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro”: niente di più erroneo quando si tratta degli umani. Crediamo che ci sia un dentro rassicurante e un fuori minaccioso, ma spesso ciò che viene da dentro può mordere e far soffrire più degli stimoli esterni, può essere intimo e pauroso come l’unheimliche freudiano, che terrorizza proprio per la sua inquietante familiarità. Abbiamo tutti dentro qualcosa di sconosciuto e familiare allo stesso tempo, che ci spaventa. L’intimo racchiude una parte “extime” che ci è straniera, ma che ci appartiene. Per questo la paura non trova nelle pareti di casa una solida soluzione, l’angoscia scatenata dalle misure di distanziamento sociale, sgorga da punti profondi e intimi dove hanno le radici angosce di abbandono e di perdita provate nella preistoria della nostra esistenza. Le patologie che sono esplose in questo periodo di crisi mondiale, sono il frutto della lacerazione dei sembianti abituali: un cortocircuito si è creato tra la funzione di soccorso che viene dal di fuori e la minaccia di pericolo che il fuori produce allo stesso tempo. Sembra che non ci sia più una via di fuga. Il mondo si ristringe producendo effetti di soffocamento e di angoscia. Quando poi la minaccia può venire dai familiari, dai nipoti per i nonni, dai figli per i genitori, lo smarrimento si amplifica.

Ognuno trova le sue soluzioni, costruisce le sue invenzioni, e sarebbe assurdo dare indicazioni uguali per tutti. I governanti devono farlo, certamente, ma abbiamo visto come questa esigenza crei tentennamenti, sbagli e contraddizioni. L’angoscia non è trattabile in forma generalizzata. Essa parla una lingua singolare, e a differenza del gioco del nascondino, non ci sarà qualcuno che corre al muro e toccandolo dirà : “tana libera per tutti!”. Ognuno trova il suo spazio, la sua “tana libera” personale, articolando il suo dentro e il suo fuori, in funzione della sua storia e delle sue possibilità. Per qualcuno si tratterà di usare tutti gli spazi e le ore di libero movimento, per uscire, per incontrare gli amici, per passeggiare e per apprezzare il “fuori”; per altri uscire di casa sarà molto più difficile e minaccioso. Ma al di là del dentro e del fuori urbano, al di là degli spazi organizzati dalla regole sanitarie, ciò che conta è il nostro personale rapporto con il dentro e fuori psichico, con lo spazio simbolico che ci costruiamo nel corso della vita, che si dispiega senza interruzione tra intimo e straniero, tra interno e esterno, come il battito del respiro, come il battito del cuore, in un movimento che non può escludere né l’una né l’altra dimensione e che non ci permette di sapere prima ciò che l’incontro con la nostra alterità ci riserva. Quello che sicuramente sappiamo è che rimanere nascosti non è l’obiettivo del gioco, dovremo correre il rischio di uscire dal nascondiglio per “fare tana libera”, ognuno a modo suo, ognuno con il suo respiro e con il suo ritmo.

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