di GIULIA PAOLETTI
Nella pratica clinica a Parigi mi capita di incontrare pazienti italiani che vivono qui da diverso tempo e per i quali la tematica del « ritorno a casa » emerge nel corso delle sedute in modo ricorrente. Per la natura stessa del tema, e quella intima, umana, degli attori che interagiscono nel contesto della terapia, un coinvolgimento emotivo ed una comune matrice esperienziale portano inevitabilmente a consolidare la relazione e l’alleanza terapeutica. Anche se in modo diverso, con tempi, ragioni e motivazioni tra le più differenti tra loro, un comune sentimento si delinea e unisce il vissuto di entrambi, paziente e psicologo: la nostalgia.
Spesso chi ha scelto di vivere all’estero nutre sentimenti ambivalenti nei confronti del paese che lo accoglie: se da una parte lo vede come luogo di opportunità per la propria realizzazione professionale, o luogo cui associano l’affetto per la propria famiglia e per le relazioni costruite negli anni; dall’altro il paragone con il paese d’origine e, più genericamente, con la vita che hanno lasciato in Italia si presenta con conseguenze emotivamente dolorose.
La sofferenza in particolare è data dall’enorme sforzo di risolvere una dissonanza cognitiva che vede contrapporsi vantaggi e svantaggi del vivere qui (o all’estero in generale) e del vivere nel proprio paese. Quello che si osserva frequentemente in questi casi è la fatica dovuta all’entrare mentalmente in un contraddittorio tra le ragioni che giustificano il restare o il ritornare.
Sofferenza dunque, e fatica che non fa che disperdere energia mentale e spesso distoglie od ostacola dal perseguimento dei propri obiettivi personali nel paese che li accoglie. Una sorta di peso che accompagna l’esistenza di questi pazienti, il cui sguardo viene in tal modo costantemente rivolto verso il passato, idealizzato e reso quasi onirico e irreale, costellato di relazioni che sembravano più «vere», più autentiche. Da cibi, tempi, profumi, abitudini e comportamenti che sembravano, in alcuni di questi pazienti, essere gli unici ad avere valore e senso.
Si crea cosi’ un sentimento di nostalgia per un passato irreale e ricostruito, fatto di ricordi filtrati dal tempo in cui si era più giovani, più liberi, più ingenui. Nostalgia che nutre se stessa e che ha sempre meno attinenza con quella che era la realtà, con la memoria, pur significativa e felice, del tempo passato. Nostalgia che fagocita e ingloba tutto il resto, tutto ciò che davanti si prospetta e si potrebbe raggiungere, migliorare o anche semplicemente osservare con sguardo curioso e nuovo.
Il paziente che si presenta in terapia con questo tipo di problematica, legata al mancato ritorno in patria, vive e subisce dunque un’ angoscia motivata in gran parte dalla stagnazione e dal continuo ripetersi del conflitto fatto di prove e controprove a sostegno dell’una o dell’altra tesi : del restare o del ritornare. Costantemente teso all’esercizio del valutare opportunità e occasioni future o ormai perse per un eventuale rientro. Indipendentemente da quale sarà poi la scelta finale che queste persone intraprenderanno, il lavoro fatto in terapia è costituito in gran parte dalla rielaborazione e ristrutturazione di alcuni di questi interrogativi, che limitano e paralizzano le persone e ne irrigidiscono schemi di pensiero e di comportamento.
Uno degli elementi che si affrontano nel percorso terapeutico riguarda proprio questo : l’apprendere ad abbandonare questo conflitto e, una volta stabilite le ragioni e le difficoltà legate ai diversi esiti della scelta, accettare che queste esistano ed abbiano uguale dignità senza cercare di capire se siano giuste o meno, corrette o meno. Piuttosto che provare incessantemente a risolvere il conflitto dunque, accettarne l’esistenza e non subirlo.
Riconoscerlo e tentare di osservare da cosa realmente sia composto. Il criterio di scelta non sarà infatti determinato da una semplice somma di vantaggi e svantaggi, ma da ciò che sarà in grado di dare più senso all’esistenza del paziente, tenendo conto dei propri valori e delle cose realmente importanti per lui/lei.
L’accettazione dell’esistenza del conflitto in questo caso, non va intesa in senso passivo e rinunciatario, ma consisterà in una messa a fuoco delle vere cause sottostanti, in un cambiamento di prospettiva che può permettere di comprendere quali siano realmente gli ideali e le forze in gioco che spingono per l’una o l’altra opzione.
Pur restando nell’ambiguità di un passato idealizzato e dai contorni vaghi questi pazienti sono comunque ancorati ad un momento di vita vissuta che non è quello presente, intrappolati in un periodo trascorso e lontano.
Obiettivo della terapia in questo caso sarà quello di riportarli al momento presente e alla realtà del qui e ora, per cercare di capire cosa concretamente li motiva e li sostiene nella propria esistenza. Non evitando a tutti i costi anche, e soprattutto, i vissuti emotivi o i pensieri sgradevoli, dolorosi e commoventi. L’interesse in tutto ciò, lungi dall’essere una forma di tortura psicologica, è dato dalla ricerca di ciò che dà essenza e sostanza alla propria vita. Questo, più di ogni razionale calcolo di pro e contro, sarà più foriero di chiarezza.
In termini comportamentali noi parliamo di rinforzo positivo o negativo. Il primo rappresenta l’aumentata probabilità che un comportamento si riproduca a seguito dell’apparizione di una conseguenza piacevole per l’individuo. Il secondo è invece dato dall’aumento della probabilità che un comportamento si produca a seguito della scomparsa di un evento spiacevole, o negativo.
Spesso quello che si osserva in questi casi è una propensione per un comportamento dettato da un rinforzo negativo : tornare a casa per far sparire finalmente la nostalgia, il senso di colpa (per aver magari lasciato vecchie relazioni, familiari e non) l’angoscia e il disagio di vivere nel paese d’accoglienza, tanto diverso da quello conosciuto.
Altra motivazione che si ritrova è quella di voler cancellare errori fatti in passato (mi vengono in mente occasioni perse, concorsi non provati, contratti di lavoro non dignitosi non accettati per perseguire una carriera all’estero…). Tutto ciò sempre nell’ottica di volersi disfare del sentimento sgradevole dell’abbandono del paese e di tutto quello che ad esso è legato.
Quello che si cerca di fare invece in terapia è piuttosto l’andare a privilegiare l’altro tipo di rinforzo, quello che aggiunge « ricompense » e nutre di significato, andando ad accrescere la propria esistenza di eventi, luoghi, relazioni ed attività che arricchiscono la propria vita, al di là di qualunque esito e di qualunque decisione venga presa alla fine del percorso.
Concludo con una citazione che mi sembra particolarmente vicina a questo mio pensiero, e nella quale ho riconosciuto gli altri, ho riconosciuto me :
« Più la loro nostalgia è forte, più si svuota di ricordi. Più Ulisse si struggeva, più dimenticava. Perché la nostalgia non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza. »
Milan Kundera, L’ignoranza, 2001