Il tempo è libero?

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Articolo di FOCUS-IN

La dottoressa Cinzia Crosali, presidente e cofondatrice dell’APSI, propone una riflessione sul nuovo concetto di libertà scaturito dall’esperienza della pandemia.

Articolo pubblicato sulla rivista “FOCUS IN , n.48, Société, politique, culture italiennes vue d’ailleurs. » con il titolo: VUOTI DA RIEMPIRE IN TEMPO DI COVID-19.

La domenica mattina mi sveglio sempre con il mal di testa”, mi dice inquieta Giovanna, giovane donna celibe e indipendente. Nel mezzo della seconda fase della crisi sanitaria, causata dal covid-19, Giovanna non ha problemi durante la settimana, per molte ore è occupata dal telelavoro nel suo appartamento fuori Parigi, e riesce a riempire piacevolmente il tempo alleggerito, grazie al confinement, dalla fatica dei viaggi nella metro e sugli autobus che prima le rubavano parecchie ore del giorno. La domenica vorrebbe riposarsi, lasciarsi andare al “dolce far niente” meritato. Eppure dei fastidiosi sintomi la assalgono proprio in questo periodo dove il riposo totale le sarebbe consentito. Qualcosa di lei si oppone al vuoto della domenica da quando le misure sanitarie la obbligano a restare a casa nel giorno in cui non lavora. Altri pazienti, soprattutto coloro che vivono soli, testimoniano di un ostacolo sintomatico che impedisce loro di approfittare della grande quantità di tempo creata dalla nuova limitazione della libertà di spostamento. “Mi sono sempre lamentato di non avere tempo per me, ed ora che ne ho tanto non riesco ad usarlo” mi dice Claudio, che viene ad incontrarmi per curare i sintomi depressivi. Claudio lavora in un grande hotel parigino che durante il confinamento ha chiuso le sue porte e interrotto l’attività, mettendo i dipendenti in disoccupazione. L’idea iniziale di usare questo inaspettato tempo libero per leggere, fare sport, disegnare, studiare, si è rapidamente scontrata, per Claudio, con una sensazione di stanchezza e svogliatezza profonda, che non trova nessuna soluzione nel riposo. “Non faccio nulla e sono sempre stanco, meno faccio e meno ho voglia di fare”, costata con tristezza. Sintomi da isolamento

I sintomi da isolamento sono stati largamente repertoriati dagli esperti: depressione, ansia, insonnia, angoscia, disturbi alimentari, vulnerabilità. Se nella prima fase della pandemia, la paura del contagio e della morte insisteva nell’immaginario di molte persone, la seconda fase è stata invece caratterizzata da forme di profonda stanchezza, di astenia e demotivazione. Proprio perché c’è tanto tempo davanti a sé, la procrastinazione è una tentazione diffusa: rimandare gli impegni e passare ore davanti agli schermi sugli spazi virtuali, diventata per molti un’abitudine. Sono venuti a noia anche gli aperitivi via zoom, la sperimentazione di nuove ricette di cucina, i corsi di yoga o di Qi Gong on-line ed è persino scaduta quell’arte di fare il pane in casa che aveva primeggiato durante la prima fase del lockdown. Che cosa è accaduto di diverso nella seconda fase? In molti casi si è alterato il rapporto con il tempo e con lo spazio. Il periodo di sospensione ha modificato il senso dell’attesa. All’inizio si aspettava che le cose tornassero com’erano, poi si è insinuata la consapevolezza che nulla sarebbe tornato come prima, e si è cominciato ad attendere qualcosa di ignoto: il tempo e lo spazio del dopo covid-19. Nessuno sa come sarà questo tempo che deve ancora arrivare, e il “non sapere” è il primo fattore di smarrimento e demotivazione. Come si può organizzare la vita, il lavoro, la famiglia, il futuro, se non si sa quello che succederà. Una sensazione di perdita si profila: perdita di punti di riferimenti, ma anche di autostima, di autocontrollo. Ci si può sentire improvvisamente esposti a rischi spaventosi. La sensazione frequente è quella di essere presi in ostaggio. Le antiche abitudini si trasformano in care certezze che sembrano perse per sempre. Eppure sappiamo che queste sicurezze non esistevano neppure prima: la vita ci ha sempre esposto all’imprevisto, ma siamo abituati a creare schermi accettabili e condivisi, a ingannarci un po’ di fronte alla nostra imperfezione, alla nostra precarietà umana, di fronte alla morte. L’esperienza covid-19 ha squarciato questi schermi e ci ha esposti all’eventualità della perdita di ciò che consideravamo come diritti inviolabili. Nella prima fase si è vissuta “la perdita” nella sua dimensione di urto, di trauma, nella seconda fase c’è stato il rischio, e per alcuni la reale sensazione, di entrare in una dimensione di lutto, con il disinvestimento pulsionale che sempre accompagna il lutto. Il vuoto temporale e spaziale produce vissuti di derealizzazione, sensazioni di smarrimento e di paura. Dovremmo forse ricordarci che le cose della vita sono sempre impermanenti e che procediamo nel tempo della nostra esistenza senza mai tornare alla “vita di prima”. Le regressioni e le immobilità sono invece manifestazioni sintomatiche. La “vita di prima” che appare oggi come il paradiso perduto, era già carica di incognite e di ostacoli. La nostra nostalgia di un passato dorato è spesso una costruzione immaginaria difensiva e sicuramente non ci aiuta nella necessità del cambiamento. Ozio e accidia

“Non ho più gusto per la vita” mi diceva recentemente un paziente, raccontandomi che nella condizione forzata di inattività professionale si è trovato davanti a giornate interminabili e a una sensazione di “non senso”. Inventarsi nuovi modi di occupare il tempo e lo spazio, che si dilatano o si restringono secondo i punti di vista, non è sempre facile. Tornano in mente i riferimenti all’accidia degli Antichi, gemella dell’ozio, e considerata un peccato capitale e mortale, perché in opposizione alla Speranza, che i Padri della chiesa proponevano come virtù e risorsa salvifica di fronte alla paura e all’angoscia. La storia è attraversata da questa parte oscura della vita con le sue denominazioni progressive: accidia, malinconia, spleen, fino alla moderna depressione. Ciò che è cambiato è il rapporto con la colpa. Fortemente penalizzata nell’antichità, la tristezza oggi si decolpevolizza nella sua forma di malattia e col nome di depressione. Il soggetto dell’inconscio è l’elemento azzerato dalla scienza moderna e in particolare da alcuni approcci delle neuroscienze. Non è stato ancora calcolato l’impatto psicologico di questo momento inedito, si calcolano piuttosto le perdite economiche, si osserva la crisi finanziaria mondialmente ripartita, i posti di lavoro che crollano, la vita delle imprese collassata. Psicologi e psichiatri sono in prima linea per testimoniare il terremoto che anche a livello psichico si sta realizzando. Le persone più fragili sono state le prime vittime. Acconsentire all’evidenza che non c’è nessuna grande istanza che può salvare, che può promettere che presto tutto tornerà come prima, è per molti inaccettabile. La nostra libertà è stata minacciata, e forse la via che si apre è proprio quella di costruire un nuovo concetto di libertà, disancorato dall’idea di onnipotenza, di assoluta possibilità di controllo, e che tenga conto del limite, dell’incognito, dell’imprevisto. La parola resta libera?

Se dobbiamo imparare a convivere con questo o altri virus, dobbiamo anche ridimensionare l’idea dell’onnipotenza umana, e accettare il cambiamento delle abitudini quotidiane. Anche il concetto di normalità è senz’altro da rivedere. La normalità è un concetto relativo che si modifica e si deforma a seconda delle necessità e delle contingenze della vita. Da undici mesi camminiamo con le maschere sul viso. L’anormalità diventa consuetudine, rivoluzionando il concetto di norma. Tutta la gestualità degli incontri è stata sovvertita. Abbiamo toccato con mano quanto gli umani siano adattabili e trasformabili. Quello che resta saldo, potente, prezioso è il ruolo della parola. Chi si è trovato talmente isolato da non poter più parlare con nessuno ha sicuramente rischiato forti cadute depressive. Ma la maggior parte di noi ha continuato ad avere contatti e scambi con la propria cerchia familiare, amicale e professionale. Dietro alle maschere, agli schermi, alle telecamere, ai “condomini” zoom, ai computer del telelavoro, ai collegamenti whatsApp, noi abbiamo continuato a parlare, a comunicare, a dire quello che pensiamo, quello che ci turba, che ci fa ridere, che desideriamo. Il virus ci ha solo coperto, ma non tappato la bocca. Finché gli umani potranno parlarsi, incontrando nella parola il malinteso e l’invenzione, la parte più vibrante, più libera e più vitale delle nostre esistenze sarà salvata.

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