La casa nelle favole, nelle canzoni, nella pubblicità.

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Casa delle favole

di CINZIA CROSALI

Ci sono case indimenticabile legate al mondo delle favole: case di paglia, di legno, di pietra, di cioccolata e un’infinità di castelli, con le torri altissime e i ponti levatoi. La prima casa che mi viene in mente è quella Hansel e Gretel, fatta di marzapane, con mattoni dolci e decorazioni alla crema, una delizia da guardare, da assaggiare, da leccare. Ma all’interno, dietro la facciata: la strega, la paura, il forno, e tutti quei fantasmi di divorazione che nelle favole attivano o esorcizzano da sempre le paure dei bambini.

La casa dei Sette Nani, quella di Cappuccetto Rosso, la casa di Cenerentola, di Pinocchio, di Raperonzolo, e di decine di altri personaggi, hanno lasciato una traccia nella nostra memoria e nelle radici delle nostre fantasie. Queste case sono lo sfondo e la scenografia delle storie e delle avventure dei personaggi fantastici, amati o odiati, del mondo immaginario. Gli illustratori dei libri delle favole e i disegnatori dei cartoni animati hanno contribuito alla creazione di questi luoghi senza tempo, dove il dentro e il fuori si articolano alle sicurezze e alle paure, alle emozioni e alle aspettative dell’intreccio narrativo. Nella stessa favola inoltre, varie case si possono alternare con differenti valenze: la storia di Pinocchio inizia con la casa di Geppetto, povera, fredda, disadorna, con l’indimenticabile fuoco acceso disegnato sul muro per dare un’illusone di calore sognato; più avanti il burattino entra ed esce dalle porte di molte case, tutte diverse e importanti: quella della fata turchina, di Mangiafuoco, quella del paese dei balocchi, ecc.… Da ognuna di queste case, Pinocchio esce arricchito, modificato, fino alla metamorfosi finale.

Le case delle favole, alimentano il nostro mondo onirico, nutrono le proiezioni del rapporto che ciascuno intreccia con un luogo simbolico in cui si iscrivono ricordi, passioni, emozioni, speranze. Si tratta di un luogo fisico e psichico, un luogo di rifugio e protezione, ma che, nello stesso tempo, contiene le angosce e le paure dell’infanzia. Poi ci sono le case delle canzoni: mia nonna cantava una canzoncina che parlava di “una casetta piccolina in Canadà, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà», da bambina quella casetta mi sembrava il luogo più bello del mondo! Essa fu ispiratrice di disegni e di giochi. Mia madre invece ascoltava Marisa Sannia, che cantava “La casa bianca”, quella casa che nessuno vorrebbe lasciare e che rappresenta la gioventù. Il mondo delle favole e delle canzoni popolari ha eletto “la casa” come un simbolo potente di un immaginario che più che collettivo è sempre intrecciato alla particolarità soggettiva. Oggi la casa di cui sento spesso parlare nelle sedute con pazienti italiani, è quella “del Mulino Bianco”, stereotipo della pubblicità, divenuto luogo comune per identificare la casa che non c’è, la famiglia che non c’è, l’armonia perfetta immaginaria e ideale e fuori dalla realtà. La casa del Mulino Bianco, con i suoi ammiccamenti patinati, ci permette, per opposizione, di esplorare la serie di case, imperfette ma reali, in cui ciascuno ha costruito la propria storia, ha annodato legami, superato angosce e inventato soluzioni. Case immaginarie e case della vita quotidiana, spazi che sono stati teatro di affetti e di conflitti, che portano il segno del nostro passaggio, che hanno lasciato in noi il segno del loro contenimento.

I bambini fin da piccoli amano disegnare grandi case che occupano tutto il foglio: un quadrato e un triangolo sopra: le finestre e la porta. Tracciati semplici e rassicuranti e in alto, un sole rotondo con tanti raggi. Questa sagoma primitiva sembra la matrice di tutte le case sognate, amate, odiate, desiderate, abbandonate, ritrovate, che il bambino incontrerà e investirà con il suo desiderio di appartenenza, di protezione e di rifugio. Questa sagoma infantile sembra essere l’immagine più autentica della famosa formula che tutti abbiamo almeno una volta pronunciato, di ritorno da un viaggio, da una giornata dura, da una fatica: “Casa dolce casa”, parole dette chiudendo quella porta che per un tempo ci separa e protegge dalle agitazioni del mondo.

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