di ANNA ARRIVABENE
Non a caso nelle terapie, si evoca la casa, la casa madre, in un modo ripetuto. Certo l’espatriarsi ne rende la mancanza più acuta. Stare lontano da casa fa risorgere il senso d’intima protezione che dà.
In quanto luogo fisico, la casa è un posto coperto. Ci si mette al coperto sotto un tetto, cosa di cui il senza tetto è sprovveduto. Intesa così, la casa è costruzione materiale.
La casa però è anche un posto intimo. In occasione di un furto in casa o come oggi, della distruzione della casa in tempo di guerra, si prova un’effrazione personale. Così è reso sensibile quanto “casa” possa venire a rappresentare il proprio corpo, la propria psiche.
Il francese distingue bene le due facce della parola casa come costruzione materiale e come posto dell’intimo: maison et chez soi.
La lingua italiana, invece, intreccia i due significati. Di fatto, a livello sonoro, la casa evoca il caso. Il termine casa viene dal latino casa il quale è molto vicino al termine caso, che viene dal latino casus. Il caso, come si direbbe del proprio destino, di se stesso come caso clinico quindi ognuno in quanto realtà psichica.
La casa ci riporta sempre all’intimo del soggetto. Nel 57 avanti Cristo, Cicerone pronuncia il suo celebre discorso, al fine di ricuperare la villa, la domus, che gli era stata sequestrata. A tale scopo elabora un ragionamento di diritto ”De/Pro domo sua”. Ne rimane tuttora nella lingua giuridica l’espressione nota “Pro domo”, che esprime l’arringa di uno che si fa l’avvocato della propria causa, che patrocina per se stesso. Ne nasce una forma di profonda identificazione tra il soggetto e la casa della sua causa.
Tutto ciò fa sì che la casa, nel parlare, si rivela sia come oggetto che come soggetto, psichico.
La casa, asilo di fantasmi
Nella Roma antica, la domus ospita le statuette di divinità e antenati. Si cerca la salvaguardia dei beni della villa e dei suoi occupanti. Così si costituiscono rappresentazioni di forze psichiche le quali fanno convivere vivi e morti.
La convivenza mentale con quelli, non esprime solo ricordi personali. Nel trecento italiano, la morte in quanto violenza, fa irruzione nelle case dove vengono isolati i primi contagiati della peste nera, evocata nel Decamerone.
Questa idea della morte come minaccia invisibile in casa viene prolungata dai fantasmi che la letteratura fa apparire nelle case dall’600 in poi. I fantasmi lasciano messaggi oppure vogliono far fare qualcosa. Spesso, la casa è abitata dagli spiriti dei precedenti proprietari che tentano di cacciare i nuovi. Si tratta di conflitti innescati nella propria mente, che ostacolano i cambiamenti.
Queste forze mentali possono diventare ossessionanti oppure persecutrici. Shakespeare ha creato uno dei più celebri redivivi, il padre di Amleto che chiede vendetta al figlio. Richiesta tradotta da Amleto in una domanda ossessiva, “essere o non essere” cioè, se si segue Freud [1], l’espressione di un conflitto interno, edipico, rimosso dal soggetto.
Così, casa è la scena di un teatro dove si svolge un’attività pulsionale che anima conflitti psichici.
Non si vive in casa, si convive con la propria casa
Una mia paziente presentava gravi disturbi somatici tra cui diversi mal di pancia. Man mano ricordò di aver sentito i primi disturbi mentre stava organizzando la partenza verso la Francia. Disse “Quando sono partita da casa sono partiti i primi disturbi”. Usava così il termine partire, nel senso di andarsene e nel senso di venirle – provocarle. Le chiesi, “cosa è questa casa” e mi rispose “è mamma”. S’intravede una vera sostituzione tra una realtà materiale e la madre che lasciava. Una separazione difficile per lei, percepibile nell’ equivoco innescato nell’uso della parola “partire” che esprime la confusione tra l’andare e il tornare.
Nell’andirivieni che traduce l’equivoco del partire come andare e tornare, c’è il moto del bambino che in mancanza della presenza della madre cerca di farla riapparire.
Un’altra paziente mi parlava di casa sua come “parte di [se] stessa”. Questa casa è la casa dei suoi antenati. Quando sta lì, sta bene, si sente tranquilla, protetta. Aggiunge, “questa casa è come una persona, ci sto bene”. Detto così si capisce, che non vive in casa, convive con sua casa.
Come pezzo di se stesso, la casa viene ad assumere il senso d’involucro, analogo alla placenta che anatomicamente appartiene al feto più che alla madre. Lacan disse che “è un elemento del corpo del neonato”. La nascita è l’occasione della perdita della placenta [2]. In questo caso, la casa viene a sostituirsi a quest’ oggetto, parte del corpo di cui il desiderio impone di ritrovare la traccia.
Tornando alla tragedia di Amleto si ritrova Lacan.
Lacan ne fa un emblema della perdita di ciò che è «più essenziale al soggetto» [3] cioè, il proprio desiderio. Amleto dunque come tragedia del desiderio, non perché il suo desiderio lo porta alla perdita della vita ma in quanto il suo desiderio svanisce nel confrontarsi con quello imponente della madre in quanto donna.
Cosa non funziona nel desiderio di Amleto ? [4] Ponendosi questa domanda Lacan ci introduce al rapporto che ogni soggetto intrattiene col proprio desiderio che è orientato da un oggetto: eletto, soddisfacente, perso, da ritrovare. Oggetto che è causa del proprio desiderio.
Man mano si distingue che la casa ospita l’intimo del soggetto, ospita quello che il soggetto ha di più essenziale, il suo desiderio. Così si può intuire meglio il senso del titolo di questo intervento, «non a caso, casa mia è il mio caso».
Il mio caso è racchiuso tra i muri che circoscrivono l’alloggio. Il muro di facciata appartiene sia all’interno che all’esterno. Così come i nostri discorsi costituiscono una superficie tra la «lingua» interna del soggetto da decifrare e quello che viene espresso dallo stesso. Se ci si riferisce a un nastro di Mœbius, le due «lingue» sono intrecciate in continuità. Col parlare si compie il processo di separazione dalla madre iniziato col vocalizzare.
Quella paziente per cui la casa era “parte di se stessa” ci fa sentire come convivere serenamente con casa sua faccia sì che ci si stia con tranquillità. A volte, il volere stare tranquilli in casa, conduce a farne un rifugio patologico, come lo dimostrano gli Hikikomori. [5]
Se la separazione con la madre è compiuta in modo problematico, il patologico può invadere il soggetto.
A proposito di questi giovani che non escono di casa, gli Hikikomori, l’ipotesi di diversi specialisti italiani è che in Italia il fenomeno abbia raggiunto le centinaia di migliaia di casi [6].
Hikikomori [7] è una parola giapponese, composta da hiku, “indietreggiare”, e komuru, “ritirarsi, nascondersi”. Indica il ritiro sociale dei ragazzi, per la maggior parte maschi, che indietreggiano dal mondo, cominciando col lasciare la scuola. Pian piano finiscono per ritirarsi completamente nella loro camera, nei casi più severi a non fare assolutamente nulla.
L’Hikikomori, in Italia, sta a casa dei genitori. Generalmente, dorme di giorno ed è sveglio la notte, quando esce per trovare del cibo.
In prima analisi, l’Hikikomori fa della casa un rifugio dove si sottrae al rischio della vita. Non domanda niente, vuole solo stare tranquillo. Vale a dire, un modo per mantenersi feto. Non toccato dal confronto con la realtà e immaginariamente perfetto, si preserva “in potenza” il che si trasforma in una “im-potenza a vivere”. [8]
Vissuta in modo così patologico, il significante casa si dimostra essere prevalentemente, non costruzione materiale quanto costruzione mentale mobile.
Insomma, per ognuno, a modo suo, casa mia è caso mio.
NOTE
1. S. Freud, « Lettre 142 du 15 octobre 1897 », Lettres à Wilhelm Fliess, Paris, PUF, 2006, p. 345.
2. J. Lacan, Le Séminaire, Livre X (1962-1963), L’angoisse, texte établi par J.-A. Miller, Paris, Le Seuil, 2004, pp. 143, 270. [Lacan a parfaitement vu que le placenta est « un élément du corps de l’enfant », une « partie de lui-même » ; plongeant dans l’utérus ses « villosités », y incrustant ses « racines villeuses. Il ne peut se départir de l’idée que le sein est « homologique au placenta » ; que la mamme, comme le placenta, est « interne à la sphère de l’existence propre à l’enfant. »]
3. J. Lacan, Le Séminaire, livre VI, Le Désir et son interprétation, texte établi par J.-A. Miller, Paris La Martinière/Le Champ freudien éd. coll. Le Champ freudien, 2013, p. 441.
4. Anne Théveniaud, « Ne pas être ou ne pas (l’) être ? », Champ lacanien, vol. 20, no. 2, 2017, pp. 73-80. [« ce n’est pas l’objet visé, incestueux, le désir « ad matrem », pour la mère, comme Freud le postule, mais « le désir de la mère », dans son incidence sur le désir du sujet, qui arrête son bras armé pour la vengeance. »]
5. Marco Crepaldi, Hikikimori, i giovani che non escono di casa ; Alpes, Roma, 2019, p. 29.
6. Si tratta di un ordine di grandezza a partire dal numero delle richieste pervenute ad associazioni.
7. Laura Pigozzi, Adolescenza zero, Hikikomori, cutters, ADHD e la crescita negata, Nottetempo, 2019, p.19.
8. Ivi, p. 35.